Dal punto di vista di un recensore, lo spettacolo scritto da Alan Mauro Vai e interpretato da Tita Giunta merita le stelle, quelle che periodici e siti Web distribuiscono a produzioni e artefatti con generosità o avarizia, a seconda dei casi. Raramente il testo si distingue per momenti di autentica poesia, volutamente raccordato su stili e registri di basso profilo (senza disdegnare perfino qualche eccesso di volgarità), eppure il messaggio che reca arriva esattamente dove intende arrivare, scuotendo gli animi e insinuando dubbi.
La protagonista, Viola, diventa la carne delle riflessioni dell’autore di 1989 – Il problema non è l’atterraggio, ma la caduta, presentandosi irruenta, aggressiva e impudente: salta all’occhio la curiosa scelta registica di accompagnare una collera recitata “di voce” a una gestura contraddittoria, con braccia tese, rigide lungo i fianchi. Dietro questa rabbia urlata si nasconde la paura, l’incertezza delle mani nasconde un disagio tipico dell’età adolescenziale, il “mal di vivere” di una ragazza che guarda alle stelle ma in essa non vuole riconoscersi.
Sullo sfondo, uno schermo di tela domina il palcoscenico, ospitando proiezioni di veri e propri mash-up della televisione anni ‘80 realizzati da Stefano Filiddani; uno sfondo ulteriore è costituito dalle musiche composte da Claudio Petronella alternate a canzoni celebri e battute registrate. Video e audio appaiono disturbati, sporcati dalla presenza insolente dei due interpreti che ne impediscono la corretta fruizione da parte del pubblico, frapponendosi ad essi come oggetti estranei nel reclamare il proprio protagonismo nel corso di una rappresentazione molto fisica, spesso coreografata – a dispetto dell’incipit che ha sacrificato la fisicità del movimento in favore delle significative grida di Viola.
Stazione Mir, anno 1989: la voce fuori campo introduce una generica contestualizzazione, fornendo al contempo quello che per la musica pop si chiamerebbe hook, il gancio che permette all’ascoltatore/spettatore di collocare il titolo nell’opera. Il soliloquio registrato prosegue descrivendo lo spaesamento dell’essere umano fuori dall’atmosfera del proprio pianeta, con un parallelo implicito allo spaesamento di lei rispetto alla propria esistenza che sfocia nel diniego della realtà terrena.
Rispetto alla personalità paradossale che continua a rispecchiare una fase cruciale della vita, i vari personaggi interpretati da Alan Mauro Vai restano sullo sfondo, assumendo quasi lo stesso (minimo) spessore dei vari sfondi audio-visivi: l’attore e regista incarna di volta in volta il padre, l’amante, il medico curante della ragazza, rimproverando i suoi sfoghi ma condividendo e invidiandone l’immutata capacità di sognare.
Il 1989 è anche l’anno della caduta del muro di Berlino, l’anno che segna la fine dell’Unione Sovietica e del programma spaziale cui la stazione Mir faceva parte: il fugace riferimento che se ne fa in scena può rimandare all’analogia per cui la maturità che Viola sembra volersi negare sancisce la fine di ogni sogno, ogni aspirazione, ogni folle desiderio di ascensione, annegandola in quella paura che viceversa riesce a infondere una razionalità rassicurante ma che inibisce il coraggio. Il problema non è dunque l’atterraggio, come il sottotitolo dello spettacolo suggerisce, ma la caduta, la rivelazione di un orizzonte inaspettato che pone i propri sogni infantili di fronte alla cruda realtà dei fatti “terreni”.
La luna torna così ad essere una meta irraggiungibile, passando dall’essere l’emblema dell’ambizione umana alla sua razionale rassegnazione di fronte all’impossibile (o poco probabile); tutto intorno molti altri simboli astronomici acquisiscono significati antropomorfi, tra l’incerta vicinanza dei satelliti al pianeta madre, la vacuità e l’insignificanza dei buchi neri, la sfuggevolezza delle meteore… e la costellazione del Cigno, perennemente “in picchiata verso l’autodistruzione” come la protagonista a cui viene spesso riproposto il paragono, solleticando le sue veementi proteste.
Di fronte a tante allegorie, l’unica, amara certezza che traspare dalle parole di Viola e del suo poliedrico compagno di palco sembrano ispirare una rassegnata, quindi “adulta”, inferiorità dell’essere umano rispetto alle stelle. Una condizione condivisa, in maniera decisamente meno aulica, dallo spettacolo stesso, che a fronte di un testo profondo ed emozionante ambisce alle stelle senza neppure cercare di arrivarci: 1989 meriterebbe davvero quelle stelle, i fasti e gli sfarzi delle grandi produzioni, ed è un peccato che debba presentarsi nel suo aspetto più umile e terreno.
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1989 – Il problema non è l’atterraggio, ma la caduta
Di e con Alan Mauro Vai
Con Tita Giunta
Musiche di Claudio Petronella
Videografie di Stefano Filiddani