In un luogo claustrofobico e in un tempo indefinito si palesa l’inconsistenza del vivere, l’intrinseca inutilità dei gesti quotidiani, delle relazioni, dell’essere legati a un contesto. I quattro protagonisti sono ancorati al loro stato, condizionati ciascuno dal proprio limite che ne preclude ogni possibilità di risoluzione, di cambiamento di prospettiva. È il finale di partita della loro esistenza, la terza e ultima fase dell’incontro di scacchi quando sulla scacchiera restano pochi pezzi e il re diventa anche figura di attacco.
Teatro dell’assurdo è definita la poetica di Beckette. Linguaggio stralunato, dialoghi sincopati, assenza di una trama, mancanza di ancoraggio spazio-temporale. Tuttavia la miseria della condizione umana, l’ansia di essere amati, la ricerca del senso dell’esistenza, il sottile piacere di esercitare un potere su qualcuno, il ricatto esistenziale e affettivo, la pseudomagnanimità, l’irriconoscenza sono aspetti del vissuto storicizzati e universalizzati. Vili, forse, e patetici ma umani e non assurdi.
La regia di Andrea Baracco asseconda questa visione incentrata sulla difficoltà di vivere di tutti e di ciascuno a suo modo, sottolineata dalle musiche ritmiche di Giacomo Vezzani.
Hamm è un vecchio signore cieco e paralizzato, relegato sulla sedia a rotelle, che percepisce la realtà attraverso gli occhi del servitore Clov perennemente irrequieto e impossibilitato a sedersi: “a ciascuno la sua specialità”. La partita a scacchi tra i due è spiegata dallo stesso Beckett: “Hamm è il re che nel finale fa mosse senza senso, come un cattivo giocatore, uno bravo avrebbe già rinunciato a questa partita persa fin dall’inizio”.
In un rifugio, forse dopo un evento catastrofico, Hamm troneggia sulla sua poltrona a rotelle dettando ordini al servo che si muove instancabilmente con andatura robotica pe incombenze di routine: trasportare la scala per guardare fuori dalle alte finestre la desolazione della terra da una parte e del mare dall’altra “non c’è più natura, non esiste più tempo”, far girare la carrozzina, trainare due cassonetti dove giacciono i nudi tronconi umani dei genitori di Hamm, Nell e Nagg, giunti anch’essi al finale della loro partita, scorie umane che pronunciano frasi senza speranza… “nulla è più comico dell’infelicità”.
Hamm attacca e si difende impartendo ordini e ritrattandoli, impetrando parole d’amore e d’amicizia, Clov aggredisce e rifugge minacciando di abbandonare il padrone e rassicurandolo sulla sua fedeltà. Padrone e servo, padre e figlio, alternativamente vittima e carnefice, sognatore l’uno, disincantato l’altro: “a che servo io” chiede Clov “a darmi la battuta” risponde Hamm.
La stagione all’Eliseo si inaugura con questo capolavoro contemporaneo in cui la difficolta di vivere dell’uomo è quasi paradigmatica dell’odierna difficoltà di sopravvivere del teatro.
La scena di Marta Crisolini Malatesta evoca un bunker e una sala mortuaria con i carrelli estraibili da cui emergono i busti di Elisa Di Eusanio e Mauro Mandolini, simulacri di esseri umani eppure carnalmente michelangioleschi.
Glauco Mauri e Roberto Sturno portano in scena Finale di partita per la prima volta “prima non ci sentivamo maturi per affrontare un così poetico, tragico e farsesco aspetto della vita” affermano. L’aspetto di grande vecchio dell’attore dalla gloriosa carriera accentua il messaggio delle ipocondrie della vecchiaia aggravata dall’inabilità, come la paura della solitudine e la mutevolezza dell’umore, il bisogno di tenerezza per esorcizzare la fine. Roberto Sturno è realisticamente incapace di esprimere un senso dell’esistenza, allucinato nel suo tempo immutabile ritmato dal ticchettio di una sveglia. I genitori nei cassonetti, cadaveri con un barlume di vita, più giovani del figlio, sono cristallizzati in un’agonia senza fine.