Mentre il pubblico entra in sala, a sipario aperto un gruppo di attori in tuta fa riscaldamento ginnico muovendosi ritmicamente. Il ritmo, elemento fondante del teatro di Emma Dante, si intensifica e si fa movimento scenico cadenzato descrivendo figure geometriche, mentre il respiro si affanna. All’abbassarsi delle luci i 14 giovani (7 uomini e 7 donne) iniziano a spogliarsi sulla ribalta per asciugarsi il sudore e poi lasciano cadere gli indumenti ai piedi del palcoscenico. Accortisi della loro nudità se ne vergognano, come Adamo ed Eva appena cacciati dal paradiso terrestre, e si coprono pudicamente con le mani, rinserrando le fila nel tentativo di sostenersi e mimetizzarsi.
Come creature primitive all’alba del mondo o in fuga da un conflitto, si dibattono offrendosi alle lusinghe e ai pericoli, alla ricerca di sé, deprivati di ogni orpello e perfino della voce, ballano ondeggiando, si scontrano e si disperdono, farfugliano e giocano selvaggi e scoordinati.
Non una provocazione ma un racconto in immagini sull’uomo primitivo, destrutturato, espressione della difficoltà di stare al mondo fuori dall’Eden e del disagio dell’attore di stare sul palcoscenico nel tentativo di rappresentare altro da sé. La performance è l’approdo di uno studio sul lavoro dell’attore e sulla capacità di comunicare con il corpo, afferma l’autrice e regista.
Non è morbosità ciò che cattura lo spettatore, ma empatia e una pietas antica per l’essere umano vinto dalla fatica, smarrito, inerme, vittima di un demiurgo che lo dirige. Dall’alto e dalle quinte infatti vengono proiettati sulla scena petardi, bambole parlanti, carillon, spade, noccioline, taniche d’acqua, scope, drappi (citazioni da precedenti lavori teatrali della Dante e sua cifra stilistica) per soddisfarne le funzioni primarie e metterne alla prova i comportamenti indotti e le interazioni umane.
È un’onda umana di corpi ora possenti come figure michelangiolesche ora dimessi come relitti, scimmie antropomorfe che si muovono saltellando sulle gambe con le lunghe braccia penzoloni mostrando i denti ed emettendo suoni in un grammelot con intonazioni sicule quella che si spande e si aggruma in un unico organismo. È difficoltà di vivere, di esprimersi, di recitare, privi di vestiti, di voce, di musica, di armonia in un brodo primordiale in cui un paio di volte si spandono le note di Only You dei Platters, nei momenti topici dell’affinità amorosa.
Fedele ai suoi stilemi di ricerca sulla corporeità, la Dante porta in scena un bestiario umano deprivato di tutto, libero da tutto, non camuffato da sovrastrutture, esposto a ogni abominio e orientato ai propri bisogni senza tregua per non soccombere, che lotta e solidarizza per sopravvivere.
I vestiti catapultati dall’alto nel finale non vengono raccolti, come atto di ribellione al conformismo che vuole coprire le nudità, le bestie hanno imparato ad esprimersi col corpo senza mediazioni, prigionieri sì ma liberi dalle convenzioni, avviati forse verso una catarsi.
Compiacimento estetico o estrema sintesi di poetica artistica?
Ottima prova di plasticità performativa di tutti gli attori, in uno spettacolo che priva anche gli spettatori di parole per interrogarsi.