Il Cantico dei Cantici è uno dei testi più controversi della Bibbia, uno degli ultimi che entra a farne parte. Parla d’amore, senza mai citare Dio, anzi soffermandosi sugli aspetti più semplici e carnali, sugli odori e sui sapori della passione amorosa. Un uomo e una donna, un coro, un poeta. Quasi una tragedia greca. È un canto a più voci, che Roberto Latini assume tutte su di sé, interpretando un personaggio androgino, disperato, completamente assorbito dal suo sentimento, il vero protagonista dell’opera. Il Cantico non ha autore né datazione certi, tantomeno una letteratura che lo inquadri, e consiste così in un testo, nudo e puro, a cui possiamo approcciarci in maniera del tutto spontanea e personale. Un’armonia di parole che ognuno legge col filtro della propria esperienza. Latini fa sue quelle parole così eterne, quei vini e quelle mirre, quei baci e quei caprioli, e le annuncia dai microfoni di una radio, incorniciato dietro un tavolo che lo opprime e da cui, appena può, si divincola. Alterna il testo, ripetuto, gridato, straziato, alla musica e ai silenzi di una cornetta, che richiamano l’amore struggente della Voix humaine di Jean Cocteau. I suoni riempiono, nel teatro di Latini, forse più delle immagini, e nel Cantico ne sono le cause: lo speaker in marsina viola e bretelle muove le braccia, pesticcia i piedi e balla al ritmo della musica e delle sue parole. Balla disordinato e rapito, quasi incosciente, privo di libero arbitrio di fronte all’amore che la musica gli racconta. Anche quando tenta di fermarsi, di sedersi sulla panchina dalla quale si è svegliato, le note si impossessano di lui e lo attirano nel loro vortice. L’amore turbato e turbolento per il suo “diletto” è il motore di tutto. «Non ho tradotto alla lettera le parole, sebbene abbia cercato di rimanervi il più fedele possibile. Ho tradotto alla lettera la sensazione, il sentimento, che mi ha da sempre procurato leggere queste pagine. Ho cercato di assecondarne il tempo, tempo del respiro, della voce e le sue temperature». Così Latini descrive il suo lavoro, che certo lo ha toccato nel profondo, se ancora al momento dell’inchino, tra gli applausi del pubblico, l’attore e regista è visivamente estenuato dalla prova scenica, stavolta non per la fatica di immedesimarsi in qualcuno che non si è, ma per aver scandagliato il proprio essere e averne tirato fuori una passione profonda, sconvolgente. Lo spettatore assiste a questo turbinio di suoni e parole, alla disperazione che avvolge il palcoscenico. Il rischio è che questa lettura così intima, seppur manifesta, rimanga estranea al pubblico, lontano dalle corde di tutti o di qualcuno. Certo non si rimane indifferenti di fronte allo strazio di un’anima innamorato e il Cantico dei cantici di Fortebraccio Teatro mette a nudo l’irrazionalità dell’amore, che ognuno, nella propria follia, capisce o tenta disperatamente di carpire.